questa settimana inizia il Torino Gay Lesbian Film Festival, motivo di vanto della nostra città (la più importante rassegna di cinema GLBT in Italia e il terzo nel mondo). Da 25 anni il Festival ci porta a conoscere mondi e culture differenti, e per me è sempre stata un’emozione parteciparvi, dal lontano 2005 quando per la prima volta, un po’ spaventato e molto incuriosito, entrai nelle sale del Massimo. Ora il Festival si è spostato, apertura giovedì sera all’Ideal alle 21 con il film Le Fil – ospite la Cardinale - e il resto delle proiezioni all’Ambrosio. Per chi volesse il programma dettagliato può visitare il sito http://www.tglff.com/
Ma questa settimana vorrei parlare di un’altro argomento che mi sta molto a cuore e che mi ha tolto il sonno per un paio di notti. Penso che conosciamo tutte la valenza, l’importanza e la bellezza di un Pride. Ma non fa mai male ripeterlo. Nasce davanti allo Stonewall Inn la notte del 28 giugno 1969, quando per la prima volta un gruppo di omosessuali e travestiti reagì all’ennesima retata della polizia, e nella leggenda si narra che il via alla moderna lotta per i diritti delle persone LGBT sia stato dato dal lancio di un tacco a spillo contro un poliziotto. I fatti ci raccontano di 3 giorni di lotta senza quartiere, con cariche della polizia a cui si opponevano manifestanti armati di parrucche e bigodini.
Ogni anno il Gay Pride (a Torino usiamo solo Pride, ma in alcuni punti dell’articolo vedrete un “Gay” davanti per distinguerlo dalla forma del Pride che verrà coniugata verso il finale) viene “celebrato” in molte città del mondo. In Italia il Pride si coniuga da qualche anno in diverse versioni: quelle locali, frutto di un lavoro continuo sul territorio di riferimento, quelle nazionali, che condensano in una città un percorso di avvicinamento costituito da una serie di iniziative atte ad interessare le persone e a costruire una base culturale e politica che ha come culmine il giorno del Pride, quelle storico-politiche che hanno sede a Roma.
Il Pride non è una manifestazione come tutte le altre, e questo lo sa bene chi ha potuto assistere o partecipare (e risulta evidente che i soliti detrattori che ne parlano con malcelato disprezzo che non ne hanno mai avuto esperienza). La musica, l’idea della festa, la capacità di unire una comunità altrimenti eterogenea e variegata, le persone con i sorrisi sul volto fieri per un giorno di poter essere totalmente quello che sono, gli amici e le amiche magari portate a forza facilmente identificabili per l’espressione di incontenibile stupore, la trasformazione di una città in un luogo “somewhere over the rainbow” dove ogni persona ha libera e fiera cittadinaza. Le iniziative che lo accompagnano segnano il territorio con pennellate di apertura culturale (mostre, libri, dibattiti, feste), la febbrile preparazione di donne e uomini che dormono quattro ore a notte per settimane, le polemiche immancabili che danno spazio a contraddittori altrimenti negati, il dialogo con differenti realtà con le quali si aprono orizzonti comuni di vicinanza di percorsi e opinioni… tutto questo, e molto ancora altro, e infinitamente ancora altro caratterizza il Pride.
Pride che a Torino, contrariamente a quanto sembra circolare come notizia non ufficiale, non si farà, almeno non nelle forme classiche alle quali siamo abituati. Il Coordinamento Torino Pride, dopo un’attenta e lunga discussione, ha preferito seguire un percorso che porti ad una manifestazione più allargata, attenta anche alle realtà femminili e dei migranti (già citate da Cota nei suoi pronunciamenti contro la RU486 le prime e da sempre nel mirino della lega i secondi). Di fondamentale importanza quindi diventava la riunione di ieri sera indetta dalla Casa delle Donne e quella precedente lanciata dai collettivi universitari, delle quali vi parlerò in seguito. La manifestazione che ne dovrebbe uscire, secondo le linee guida lanciate dall’assemblea del Coordinamento Torino Pride, dovrebbe avere un respiro nazionale e uno spezzone LGBT visibile e riconoscibile.
“Ma che vergogna”. Ecco i virgolettati di risposta in alcune dichiarazioni di amici ed amiche quando hanno appreso la notizia. “Ma quindi non facciamo il Pride a Torino?” “Mi piace l’idea di questa manifestazione, è un modo nuovo, però ci deve essere anche il Pride” “Ma sono tutti pazzi? Così ha vinto Cota” “Facciamolo a Cuneo!” “Ma se la gente lo voleva, perchè non lo fanno” “Perchè lo possono decidere loro?” “Io volevo chiederti la data perchè volevo prendere ferie, adesso non le chiedo certo più. Ad un Pride vado volentieri ma le manifestazioni no”.
Sull’onda politica di quanto avvenuto quella sera, dove sono volate molte parole tese, anche accuse di malafede nei confronti del direttivo in carica, o prese di posizione contrarie ad un Pride in quanto visto “partecipato da radical chic con i loro amici gay”, visto il risultato dell’ultima votazione: “Se non fosse possibile organizzare la suddetta manifestazione il Coordinamento indirà comunque il Pride” che ha ricevuto il sì solo di Quore, Arcigay e La Jungla, alla luce del fatto che questo voto era “l’ultimo di una lunga teoria di gravi incomprensioni, l’ultima e più emblematica rappresentazione delle distanze politiche all’interno del Coordinamento”, il giorno dopo sono arrivate le dimissioni del coordinatore Daniele Viotti in aperta polemica sulle scelte dell’assemblea perpetrate la sera percedente. Un gesto, a mio avviso, politicamente coraggioso.
Inutile a dirsi, sono uscito da quella sera molto deluso. A mio avviso un (Gay) Pride a Torino è necessario innanzitutto perchè urgeva dare una risposta chiara e politica in risposta all’uscita di Cota (temo che ora passi l’idea che senza la sua approvazione il Pride non si possa fare) ma non si poteva limitare a questo. E’ necessario perchè su Facebook, ormai termometro sociale, 7000 persone in pochi giorni si sono iscritte ad un gruppo che lo richiedeva. E’ necessario perchè molte persone in carne ed ossa (per chi avesse in odio i social network) con cui parlavo mi hanno chiesto quando ci sarebbe stato. E’ necessario perchè durante un Pride si sviluppa quell’idea di comunità che è così difficile da costruire nel mondo LGBT. E’ necessario perchè se è vero che il Pride deve essere costruito con un percorso dettagliato è anche vero che a Torino questo percorso già lo facciamo continuamente, con il lavoro meraviglioso delle associazioni che si spendono in attività culturali, di informazione, di prevenzione, di sinergia e di aggregazione. Ancora, è necessario nel rispetto di tutte le persone omosessuali che hanno votato a favore del centrodestra e che hanno diritto ad una manifestazione che abbia come base politica la richiesta di diritti e valori da parte di una minoranza discriminata, e non soltanto come un attacco al nuovo presidente della regione, per quanto omofobico o velata sia.
E’ necessario infine perchè era la comunità stessa a richiederlo, e questo è il fatto più grave. Di fronte a questa richiesta esplicita il NO dell’ultima votazione pervenuto dal Coordinamento apre scenari molto complessi. L’idea della manifestazione allargata, che ha comunque una sua valenza e importanza, può facilmente passare in secondo piano rispetto alla mancanza del (Gay) Pride? A questo punto chi vieta alle persone, se è ciò che vogliono, di convocarlo da sé stessi in mancanza della convocazione del Coordinamento se non si arrivasse ad un accordo con il resto della rete che si vuole creare? Vere le obiezioni sollevate: occorre un lavoro sul territorio che affianchi il Pride nella sua espressione, occorre costruire una visibilità costante e non solo un giorno all’anno, ma non bisogna dimenticare che il Pride è e resta l’unico vero strumento di aggregazione della realtà LGBT nella sua interezza, dai discotecari del sabato sera agli intellettuali dei caffè con putti e stucchi, dai bonci agli universitari, dalle trans ai gay della sauna accanto, dalle lesbiche progressiste alle sfrante palestrate, e poi il mondo laico, il mondo friendly, il mondo curioso e amichevole, il mondo vorrei ma non posso, il mondo politico. L’unico momento – a mio avviso – che può creare la più grande cassa di risonanza possibile per la trasmissione di quei valori che altrimenti è difficile riuscire a comunicare.
E’ con questo spirito che ieri sera ho assistito alla riunione alla Sala dell’Antico Macello, indetta dalla Casa delle Donne, riunione che aveva lo scopo di guardarsi in faccia e di capire in che direzione andare ed in che modo. Devo dire che sono rimasto molto colpito e soddisfatto dallo spirito collaborativo palesato, la volontà di avviare un percorso collettivo, di creare rete, di lanciare una campagna comunicativa congiunta tra tutte le realtà femminili, l’importanza di una corretta informazione (come nel caso della RU486) e di approfondire e monitorare le scelte politiche che saranno possibili a questa amministrazione (come ad esempio lo spazio che verrà dato al famigerato Movimento per la Vita che, come è stato puntualizzato egregiamente dall’assessora Artesio, è stato finora tenuto lontano dalle strutture ospedaliere, permettendo un contatto non diretto ma mediato attraverso le figure professionali – medici, psicologi, ostetrici etc – solo all’interno dei consultori, grazie al lavoro svolto dall’amministrazione Bresso), e di avviare un percorso per la costruzione di questo “Pride cittadino” - così è stato definito - che porti in piazza le persone a manifestare su valori comuni, dalla Legge 194 ma anche la non discriminazione e i diritti per tutte le persone. Soprattutto mi ha colpito l’utilizzo sereno e l’accoglienza dimostrata verso il termine Pride, che è vitale a mio avviso per avviare il percorso partecipativo che descrivevo nella prima parte.
Ferma restando quindi la mia perpelessità e lontananza dalla scelta del Coordinamento di non indire un (Gay) Pride, rinvio il giudizio sull’onda emotiva registrata da questo interessantissimo dibattito, e andrò a sedere in prima fila durante le proiezioni del TGLFF sperando di trovare qualcosa, o qualcuno, che mi doni una chiave di lettura meno polemica ma più entusiastica e collaborativa.
Voi cosa ne pensate?